Pietro Soriani
Pietro Soriani
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la critica
Giochi di colore         L’incontro con Pietro Soriani nello stile d’ambiente partriarcale del Palazzo Cordati di Barga, ci ha proposto un’immagine nuova dell’artista che conoscemmo cinque anni fa nelle sale del Palazzo al giardino. Allora il motivo quasi ossessivo delle immagini equestri - possenti destrieri lanciati a tutta corsa - cavalcati con sussiego da cavalieri e affascinanti amazzoni ben piantate sulla sella - suggerivano una prepotente voglia di vivere, forme scatenate in movimenti sfrenati, tali da suggerir l’impressione di voler balzar fuori dalle tele se non fossero state contenute in precisi spazi armonici.  Nella versione 2006 le immagini equestri appaiono un po’ meno protagoniste, pur mantenendosi la raffinata eleganza di forma e di portamento. Sul volto del cavaliere sembra poi di notare una strana smorfia, quasi a temere di essere disarcionato. La caduta, il timore del cadere, è il tema nuovo nei dipinti del Soriani. Si appanna un poco l’impeto di quei destrieri lanciati a briglia sciolta come in un baglior di lampo, compare allora l’immagine di un cavallo e di un cavaliere spezzati a metà. La solita struttura piramidale cavallo - cavaliere sembra voglia erigersi verso mete meno muscolari e più ascetiche come in un intimo afflato rivolto ad un’ascesi mistica di sapore cosmico e più spirituale. In questa ottica le ricorrenti figure dei volatili sembrano alludere a quella tensione cosmica perché è il volo a donare all’uomo la più ispirata forma di libertà. Si attenua se pur di poco la solarità delle immagini, mentre ad esse sembra subentrare una forma di crepuscolo in cui l’uomo (nel binomio cavallo - cavaliere) si muove più insicuro come in uno stato di precarietà. L’immagine di una gallina ha un preciso riscontro nell’artista che fu fanciullo (il bambino amava quella gallinella che un triste mattino fu trovata morta). Per il futuro artista quell’episodio simboleggia la caduta del suo primo aquilone, quasi la fine di un’illusione di certezza.        Adesso, apparentemente rimosso, quel lontano ricordo riemerge, dalle pieghe profonde dell’inconscio alla memoria presente del pittore adulto; sino ad assumere un valore simbolico ossia la presa di coscienza della provvisorietà della vita fatta di continue separazioni. Questo stato di precarietà, di un equilibrio perennemente instabile, è ben presentato in figure umane sedute e in piedi su sedie in bilico, tenendo un ombrello sul capo, quasi a proteggersi dalle sferzate del fato. E’ l’uomo che sente avvicinarsi il mistero che affascina ma intimorisce. Mistero che è una porta chiusa davanti al cosmo infinito, in una parte di cui l’uomo ha le chiavi che però stenta a girare nella toppa. E’ una condizione angosciosa, di indecisione, di incertezza. Ma la spinta dal superamento di tate congiunzione statico - nichilista per Soriani, artista e uomo dalla mille risorse, è già lì dietro l’angolo. L’anelito di una “redenzione” suggerisce all’autore una soluzione ritenuta impossibile già sogno del mitico Icaro che, tuttavia, fu soccombente: volare, lievitare con leggerezza sulle umane corruzioni fino ad esorcizzarle, uscire dal limbo dell’incertezza per andare incontro al parnaso, luogo di felicità e di certezza.         Soriani esce vincente da tutte le battaglie proprio perché sa usare un’impalpabile ironia, che rivolge anche a se stesso. “Il re sulla nave dalla sagoma vichinga”, “Ciao, come stai?” e quelle sagome umane dai nasi troppo lunghi per potersi avvicinare rappresentano l’icona di tutto il percorso artistico di Soriani sempre pervaso da una sottile vena ironica. Prof. Gian Luigi Ruggio - 2008
Si tratta d’un pittore che si inserisce a pieno titolo nel contesto evocato, del quale attesta la continuità in quanto, per età anagrafica, che può essere altra quella ideale, egli appartiene alla terza generazione artistica lucchese, come le precedenti due incline, come si è detto, a declinare in una chiave tendenzialmente immaginativa la sintassi figurale.  Lucca è una presenza centrale, per quanto non esclusiva, nelle opere di Soriani. La città antica e i suoi bastioni, le sue chiese, i suoi monumenti, le sue porte e torri; e poi le sue colline, la campagna cosparsa di cascinali. Al minimo fa da fondale, l’incantevole città. Magari si intravvede, appena riconoscibile, in un incastro cubico di case medievali, in un tratto di mura, in un particolare estrapolato dal contesto architettonico, talora elevato a insegna araldica, come l’esile e ardita torre Guinigi cui fa da pennacchio la notissima pianta di fico. La si riconosce persino nelle figure che agiscono sulla scena pittorica, e paiono discese da piedistalli delle statue o dalle pareti affrescati delle chiese o dei palazzi, per farsi personaggi e rientrare, complici l’immaginazione del pittore, nel circo permanente, nella sarabanda della vita.  Tale mi pare la genesi, per fare un esempio, del gruppo cavallo/cavaliere, vero e proprio leitmotiv della pittura di Pietro Soriani, un tema dolcemente ossessivo per la semplice ragione - credo - che pochi altri soggetti sono altrettanto adatti a rappresentare la dinamica della forma nello spazio: le linee forze della continuità della forma nello spazio, si direbbe parafrasando Boccioni, sulla cui resa Soriani spende molte energie, talché possiamo dirlo un tratto distintivo della sua personalità. I cavalli, con o senza cavaliere, inoltre, inducono implicitamente l’impressione della vitalità e della potenza, cui il ritmo imprime la grazia della misura armonica, ma potrebbero a un punto rompere in fuga precipitosa, imbizzarrirsi in “capriccio” fantastico con sviluppi e scioglimenti imprevedibili. Cosa che accade frequentemente nei dipinti di Soriani ove sono scene di fughe e di inseguimenti curiosamente sospesi o in precario equilibrio tra cielo e terra, che è situazione circense, di gioco periglioso.  Ebbene, il gruppo cavallo/cavaliere non deriva forse in linea diretta dal celebre rilievo romanico raffigurante Martino che dona il mantello, nella Cattedrale di Lucca al Santo intitolata? Lo documenta chiaramente la serie dei dipinti dello scorcio degli anni Ottanta, della quale si può seguire passo dopo passo il processo di trasformazione della venerata icona in modulo flessibile, interpretabile in innumerevoli variazioni strutturali e formali, sempre contrassegnate da una spiccata dinamica spaziale, talché si può dire che il tema equestre occupi un posto rilevante nella non vastissima gamma di soggetti da Soriani frequentati.  Vero è che del modello non si assume in alcun modo l’identità formale. Del San Martino romanico, restando al nostro esempio, scompare l’esatta e compatta volumetria, la sintesi plastica. Nel periodo in questione, difatti, Soriani dipingeva nervosamente, con segni rapidi che sfibravano la massa materica, determinando una tessitura franta e talora lacerata, assolutamente inadatta a sostenere un sia pur ideale telaio compositivo fatto di linee spazialmente definite. Piuttosto emergeva un senso di inquietudine della materia incontrata ad uno stadio mediano o transitorio tra il caos e l’ordine, tesa tra aggregazione e disfacimento, cui corrispondeva un colore dalle tonalità basse e terrose, davvero poco compiaciuto e ancor meno compiacente.  Nel seguito della ricerca la forma pittorica, da ispida e come terremotata qual era, si faceva più netta quanta struttura compositiva, a marcatura spaziale delle masse e a qualificazione dei timbri cromatici. Soriani gradatamente approdava all’attuale sua tessitura allarga e guazzata di intensi colori e vigorosi segni, per una visione più luminosa e cantabile, per così dire, di più spiegata pittoricità. Peraltro la partitura mantiene un sostanziale dinamismo, con qualche garbata memoria persino futurista, cui concorrono tanto la chiazzatura larga e spesso liquida e trasparente del colore, ora intenso e vivace, quanto l’interazione tra le linee ascendenti, verticali o diagonali, e quelle stabilizzanti risolte per lo più in andamenti ondulatori.  Quelle linee/forza o vettori dinamici che dir si voglia, sono a un tempo struttura e figura. Sono struttura in quanto coincidono con gli essenziali elementi del paesaggio, dell’architettura e in definitiva con l’ambiente della scena ove si svolge l’azione. Sono figura in quanto identificano gli attori, siano persone ignude o mascherate, per lo più in lievitazione, in volo acrobatico, in equilibrio precario o forse miracoloso su pareti a strapiombo nel vuoto (e torno a parlare di circo, parendomi una bizzarra compagnia di equilibristi e funamboli e giocolieri e acrobati), siano oggetti, attrezzi di scena, macchine e cavalli, gli onnipresenti cavalli, a cavaliere disarcionato o involato, che rappresentano una sorta di cifra iconica del nostro artista.  Sono queste, mi pare, le coordinate principali del linguaggio pittorico sin qui maturato da Pietro Soriani, ma bisogna dire che la sua ricerca è ancora aperta, in divenire, e certo non mancheranno, nel prossimo futuro, ulteriori apporto ad una più precisa messa a fuoco degli strumenti formatori, delle invenzioni figurali, delle soluzioni grafiche che, come nel caso del lettering di recente acquisizione, arricchiranno il suo repertorio espressivo al servizio della pittura e della litografia originale.  A proposito di litografia, bisogna qui almeno accennare che si tratta dell’altro versante in cui il Soriani si è applicato con una certa continuità e con sicura competenza, realizzando opere che nel loro insieme inclinano ad una forma grafica più ferma e analitica, per quanto sempre impostata in chiave immaginativa, potendo contare sull’apporto tecnico d’un maestro litografo di grande esperienza e sensibilità: Giuliano Angeli, nella cui stamperia lucchese hanno lavorato numerosi artisti non solo italiani.   Per concludere, penso che la pittura di Pietro Soriani meriti un’attenzione particolare in sé, in quanto autonomo raggiungimento artistico, e in rapporto di continuità con la moderna tradizione lucchese di cui parlavo, che egli oggi rappresenta a pieno titolo e con la propria riconoscibile personalità”. Nicola Micieli - 2003
Giocattolatta Incontro Pietro Soriani in occasione della mostra “Giocattolatta” nello Studio 14 a Lucca. Capisco che è un artista che ama lavorare, fare concretamente.  Mi fa subito capire quanto tenga al suo lavoro, in modo genuino, senza sovrastrutture egocentriche.  Appartiene alla generazione dei pittori, quelli veri, che si ispirano al proprio agire, nel caso di Soriani al gioco-giocattolo, apparentemente ingenuo, poi esplorando le sue opere scopro miti e fiabe tutt’altro che scolastiche: diavolacci, cavalieri, navi vichinghe, sputafuoco, angeli in caduta libera...  I sogni umani cercati per essere e diventare esperienze del vissuto. Allora il segno diventa il “bel segno”, vivace, guizzante, energico e i colori, pochi, invadono uno spazio di ironie e direzioni sovrapposte. Alessandra Trabucchi
Non è passato molto tempo da quando Pietro Soriani venne da Lucca per esporre le sue opere. Vado a memoria: doveva essere l’estate di cinque o sei anni fa. Soriani presentò i suoi lavori in una delle sale del Palazzo delle Scuole al Giardino. Di lui parlò in quella occasione Gian Luigi Ruggio che, come riesce sempre a fare, seppe cogliere e comunicare le ragioni e la qualità dell’esperienza pittorica dell’artista lucchese. Della pittura di Soriani pose in evidenza quel lievito trasognante che lo animava, come se i suoi quadri intendessero trasferirci in un’aurea serenamente fiabesca. Compensata e misurata per effetto di quel velo di ironia che l’avvolgeva.  Cavalli e cavalieri erano i soggetti dominanti della serie delle opere che allora Soriani ci portò a far conoscere rivelando il timbro sicuro di pittore lucchese. E’ questa una certificazione di grande importanza perché rimanda ad una lunga trama di collegamenti maturati negli anni e passati di generazione in generazione come una sorta di preziosa consegna.  Soriani sta dentro questa trama che purtroppo per mancanza di adeguate iniziative - Lucca sotto questo aspetto è avara come poche altre città - non riesce a farsi riconoscere come il connotato di esperienza collettiva.  Su questa sua identità ha giustamente insistito un critico attento e dotato come Nicola Micieli che ha individuato l’origine e il modello di tanto operare di Soriani in quella Lucca del sogno e dei simboli che viene percepita come una sorta di “imago mundi”: un immaginato e immaginario teatro della Storia e della Vita che ospita una recita eterna. E’ vecchia come il mondo, eppure ci appare sempre nuova. Perché vogliamo-dobbiamo credere che sia sempre nuova.  Adesso il ritorno a Barga di Pietro Soriani, ospitato nella prestigiosa Casa-Museo Cordati uno dei luoghi sacri del “Nostro Novecento”, ci dice due cose di sicura densità significante. Per lui, ma anche per noi.  La prima: in questi anni Soriani ha lavorato sodo. Non si è risparmiato. Non si è cullato. Non si è accontentato. Segno questo della sua serietà e della sua onestà intellettuale.  La seconda. E’ strettamente legata alla prima al punto da essere, forse, la sua chiave interpretativa: in questi anni Soriani è mutato. Nella sua pittura avverto meno fiaba e più tensione; meno sogno e più disincanto. Come se vi affiorasse - e sono sicuro che vi affiora - l’esito di una amara riflessione sul nostro tempo che ogni giorno di più ci sembra in preda al Caos.  Era questo il messaggio che Bruno Cordati volle affidare ai quadri con i quali concluse il suo lungo viaggio nel Novecento, non era facile intenderli. Ma adesso che li rivediamo accanto alle nuove opere di Pietro Soriani ci rendiamo conto che parlano di noi e del nostro tempo. Umberto Sereni